UNA SCRITTURA AL SERVIZIO DELLE COSE UNA SCRITTURA AL SERVIZIO DEI PROGETTI Web Content Editor

Ho iniziato con i gioielli, ho proseguito con i quadri e i dipinti; poi sono approdata agli oggetti d’arte (legno, cartapesta, vetro, materici), fino ad arrivare ai portoni restaurati. È così che una certificazione acquisita in Social Media Management in un corso di formazione recente, mi ha aperto la strada per propormi come Digital Content Creator. E la domanda che sempre mi sostiene ad ogni contenuto che vado a scrivere è la stessa: che cosa mi guida? Dove si posa lo sguardo, il pensiero, l’intuito? Dove si aggrappa la scelta, il margine, il riempitivo? Di solito è sempre un dettaglio che emerge dall’insieme, un colore che sembra sbordare dalla tavolozza della tela, uno spessore, un’ombra, un riflesso della materia, un’immagine che si forma tra l’occhio e la penna e che chiede di essere posseduta, nutrita, abbigliata, e di nuovo svestita fino alle ossa, per essere riportata essenziale e valorosa, “nuda”, come sa fare la poesia.

Un processo che parte da una spinta costante e mutabile che è il verso poetico, la scelta di una metafora, di una figura retorica che rappresenti il singolo per l’insieme e l’insieme per il tutto. L’artista, l’artigiano, il restauratore che si rivolgono a me, da me non sanno mai cosa aspettarsi esattamente, all’inizio. Eppure l’esperienza poetica che mi precede traccia anche in loro già un segno percorribile del seminato plausibile. Ed è da lì che convengono con me che tutto può farsi poesia; è da lì che si incontrano le annotazioni in versi del tutto inattese, e che le collaborazioni prendono vita da pochi segnali di collisione essenziali.

Soffermiamoci su Scascoli. Una pendenza notevole sul Savena. Boschi che si annusano dalla strada. Un casolare con una vecchia stufa accesa che sa ancora come far sentire regina chi vi abita. Forme in cartapesta. Colori bui, luminosi, infuocati. Uno stregante sorriso. Capelli rossi e le mele sul fuoco. Brucia un incenso, l’aria profuma di tisana allo zenzero. Entro con la penna aperta, la poesia al servizio dell’arte, la tecnologia ai piedi della creatività. Qui il cuore è aperto, c’è voglia di vivere di bellezza. Sono una ninfa dei boschi. Fatemi spazio. Lasciatemi volare tra le fronde.

Uno screenshot del mio articolo “Alchemical Gold” in inglese presente sul sito https://www.xelahartstudio.com/alchemical-gold/

E adesso andiamo a Bazzano. Le colline della Valsamoggia. I vigneti, i calanchi, le spalle del sole coperte dal verde scollinante. Una sala espositiva che prima di tutto è una tana ariosa, luminosa, chiara. Un luogo intimo di incontri tra creativi, sotto un nome di stampo evangelico del pittore, tra l’uso però libero da vincoli stilistici delle sue mani, del pennello, su polistirolo, su legno, sugli schermi dismessi di computer. Una mente al servizio della progettazione istintiva. Entro con la mia istintualità espressiva. Assemblo parole sulle gocce di colore, tutto è impregnato di vivacità, di occhi meravigliati, di giocosità. Tutto è al contempo decisamente serio, ricercato, accogliente. Mi siedo sul lungo divano e mi sento una parola studiata profondamente. Ne cerco altre. So che posso raccontare quello che qui si respira. Inspiro. Sento.

Uno screenshot i miei contenuti web inerenti alcune opere presenti sul sito https://giovannineripittore.it/?page_id=31

Non serve ribadire il concetto che la poesia può incontrare, contaminarsi essa stessa, o influenzare altre forme espressive. A un certo punto occorre fare. E per questo, benedetti siano gli incontri, quelli belli, quelli programmati da un fato generoso che va a braccetto con la ricerca insita nel proprio personale percorso.

Ovviamente essendo il progetto del Web Content Editor in attuale espansione, vi invito caldamente, se incuriositi e interessati, a scrivermi al mio indirizzo info@serenavestene.it

Sarà un piacere iniziare a conoscere cosa può produrre di nuovo la parola per voi.

A SPASSO CON BOBIN

“Cara Mariangela,

entro in punta di piedi nei libri di Bobin, paura di disturbare, di respirare troppo rumorosamente. L’ideale sarebbe essere uno qualunque dei fiori del mazzo sul suo tavolo o un suo libro un po’ impolverato. C’è tanta solitudine, sacra solitudine e silenzio lì da Bobin.

E ancora più esitante sono questa volta che non basta fare tappezzeria o polvere nel luogo dove lui scrive, ma ci si offre l’impresa di parlarne.”

“Cara Chandra,

è vero! Ero tutta presa dai miei problemi e camminavo senza vedere niente. Poi ho alzato la testa ed erano lì, immense e magnifiche e non più viste dall’anno passato, le ginestre. Forse le ho viste come Bobin guarda i suoi vasi di fiori. Sempre di più mi sembra che suo compito, o forse sua legge, sia quello, quella di custodire il vuoto, la sovranità del vuoto, appunto.”

Sei a Venezia e scopri, aprendo questo piccolo libricino portato in borsa come un compagno di viaggio segreto, che due delle poetesse contemporanee che più ami del tuo paese, la cesenate Mariangela Gualtieri e la milanese Chandra Livia Candiani si scrivono con il vecchio romantico stile della lettera per parlarsi di uno dei tuoi autori di prosa poetica preferiti francese e di cui consigli la lettura dei suoi libri anche alle cinciallegre e ai fringuelli sul tiglio, al gatto bianco che ti fa le fusa, e alla zuppa di lenticchie nel tegame: Christian Bobin. E queste due penne eccelse lo fanno proprio quella volta che la tematica toccata da Bobin è quella che in questo tuo periodo della vita ti è cara come un fiore che sta appassendo, come un gatto che ti sceglie in un giorno di pioggia, come una nuvola passeggera che incombe e poi sparisce dalla vista: il vuoto e la sua sovranità nel senso più pieno. Quella che parla sono io, quella che legge affacciata alle acque della laguna sono io, quella che non crede ai suoi occhi verdi in ascolto sono io. A volte si possono solo spendere toni di voce e regalare pagine eccelse ai gabbiani in volo, alle chiatte in transito sul canale, – che poi è lo stesso che dire – al proprio cuore lì in solitudine. Tanto devo alla poesia quanto a questo uomo di là dal confine, che utilizzando una lingua dai suoni che si accordano con alcune delle mie insospettabili corde più profonde, parla dell’estremamente semplice della vita, del piccolo e del trascurabile dettaglio di poco nulla e restituisce dignità, rilievo, spessore alla minima linea d’ombra, al più insignificante, in apparenza, passaggio di luce, che quasi non mi capacito di quanto questa combinazione di talenti, di anime grandi, di sensibilità in comunicazione possano cambiare i connotati del DNA di questa mia giornata. E portarmi ad affrontare questo vuoto oltre la me stessa di adesso e i miei versi. E portarmi a ridialogare con Dio. Adesso. Ora.

“DINANZI A UNA SOLA PAROLA SEGRETA SUBITO FUGGIRA’ OGNI SOSTANZA MALIGNA”

Novalis alias Friedrich von Hardenberg

(2 maggio 1772-25 marzo 1801)

Quando numeri e figure

più non saran la chiave di tutte le creature,

quando coloro che cantano o baciano

sapranno più dei grandi eruditi,

quando il mondo fluirà nella vita aperta

e al mondo tornerà,

quando poi luce e ombra

torneranno a congiungersi in vera limpidezza,

e in fiabe e poesie

si riconosceranno le eterne storie del mondo,

allora dinanzi a una sola parola segreta

subito fuggirà ogni sostanza maligna.

(da Heinrich von Ofterdingen, trad. di Tommaso Landolfi)

Può una sola parola avere il potere di raccontare un intero periodo recluso, questo lunga fase mondiale ancora incerta nei modi e nei tempi, dettata da regole altre, da normative discusse, da sofferenze espresse e inespresse, la crisi del quotidiano e del sistema intero? Di impattare sulle emozioni e su tutto ciò che si è riversato nel cuore? E se può, possiamo immaginarci che possa divenire anche una sorta di spartiacque tra il prima e il dopo? Tra quello che c’è e quello che ci aspetterà?

Ho gettato la proposta nel mare poetico di chi ha partecipato alle mie precedenti rassegne – la prossima è in organizzazione per il 2022 – e i riscontri sono stati interessanti, bellissimi, acuti, potenti.

Partiamo oggi come premesso dai primi due contributi di due penne veronesi, quella di Marisa Tumicelli, eclettica artista e anima poliedrica nonché amica storica della grande e intramontabile Alda Merini; e quella di Agata De Nuccio, dal calore salentino delle sue origini, impegnata come ambasciatrice della lettura per bambini e ragazzi, presente nella poesia sociale e in quella dell’ambiente anche come voce radiofonica. Due mondi diversi, due parole con la stessa sibillante lettera “S” che apre orizzonti di meditata contemplazione.

SILENZIO
è  la parola che accende i miei
pensieri  dentro intimità  di vita…
è   parola luogo invisibile fiato che respiro ….dono di quiete…  leggerezza di
immagine…
tepore di riposo….
Abbraccio il silenzio fra rami e foglie…nelle ore della notte nella luce del mattino…
SILENZIO essenza d’aria senza forma…colore che si stende sull’infinito…
SILENZIO di neve che avvolge in una  dolcissima coltre…silenzio di luna e di fiore di vita segreta…
amorevole incontro con desiderio di cuore…

Marisa Tumicelli

Scintilla

Sono dentro le ceneri tiepida, dopo che le stelle hanno danzato 

intorno al falò/ sono scintilla in un campo aperto/ o dentro il tozzo ardente di un focolare.

Scelgo la parola scintilla perchè mi appartiene quello scoppiettio iniziale che fa ardere 

il cuore e la mente, la silenziosa pazienza dell’attesa, l’accensione delle stelle, il fuoco che scalda.

Sì scelgo la (S ) come scintilla come infinito prolungamento verso gli altri, scintilla per infilare 

parole come coralli nella fiamma eterna della vita.

Agata De Nuccio 

La parola rinascita racchiude in sé un ciclo e mi fa pensare alle parole del grande regista russo dell’anima Andrej Tarkovsky.
“C’è un solo viaggio possibile: quello che facciamo nel nostro mondo interiore.
Non credo che si possa viaggiare di più nel nostro pianeta.
Così come non credo che si viaggi per tornare.
L’uomo non può tornare mai allo stesso punto da cui è partito, perché, nel frattempo, lui stesso è cambiato.
Da sè stessi non si può fuggire.
Tutto quello che siamo lo portiamo con noi nel viaggio.
Portiamo con noi la casa della nostra anima, come fa una tartaruga con la sua corazza.
In verità, il viaggio attraverso i paesi del mondo è per l’uomo un viaggio simbolico.
Ovunque vada è la propria anima che sta cercando.
Per questo l’uomo deve poter viaggiare.”

Andrei Tarkovsky

Spesso torno all’immagine poetica che ci ha lasciato nel film “Il sacrificio”: Piantare un albero morto e donarlo finché non dia fiori.
Credo che questo sia un grande insegnamento di fede. Dietro ogni rinascita esiste un atto di fede, ma anche un atto d’amore. La vita ci mostra frequentemente due faccie della stessa realtà. E l’essere umano cerca spesso l’unione con qualcosa di più grande di sé. Questo è il pilastro di qualcosa di spirituale, che se ci lasciamo attraversare, ci ascolta.

Si può rinascere dalla morte perché i frutti e i fiori vi hanno rinascita insieme.
Metaforicamente, un albero dalle radici può sentire brulicare il suo tronco vivo, lo svilupparsi di un cuore e, anche se si credeva morto, uscire dalla morte come si esce da un sogno, come un nuotatore che riemerge da un tuffo profondo.
Stiamo vivendo un periodo di conflitti, non solo ideologici, ma sociali, economici e geo-politici. Difficile da decodificare.
In questo torrente scomposto di idee contrastanti, la violenza è oratoria, è una sorta di realtà che stride infelice e crea individualismo, arrivismo, opportunismo e tanto altro.
In questa realtà, dove i poeti spesso parlano di loro stessi, senza esporsi e senza preoccuparsi della ricerca dell’identità, dei valori, dell’unicità, della solidarietà, la parola se ne va in una regione che fa poco onore alla natura umana.
Io credo che da questa pratica dell’assenza, da questo divagare “accettato” di pillole di saggezza, senza porsi dubbi e senza porsi domande, bisogna rinascere. Credo che la natura morta d’autunno sia preziosa più d’ogni altra… ma implica rinascita.
La rinascita poetica implica la necessità di vivere di un altro gioco, rompere con il troppo rumore dell’Ego e ascoltare il mormorio lieve del cuore che si infrange contro le carcasse dell’apparenza. Bisogna disfarsi della finzione, dei ruscelli dorati dove si abbeverano i vani poeti, che parlano della propria scrittura senza scrivere davvero; vani poeti che vogliono impietosire parlando di miseria, senza guardare il mondo, parlando della natura senza conoscere la creazione.
Con la parola rinascita non mi voglio lasciare andare a un semplicistico discorso sociale, che è ben più vasto di quanto io possa comprendere. Il mio quadro sociale è ridotto dalle mie strette vedute e credo che il filo che sto intraprendendo non debba essere vinto da una visione pessimistica.
Io credo nella parola e non voglio distruggere i bei raccolti. Credo che i buoni raccolti raffigurino perfino il poeta con il volto coperto, che senza nessun vanto nutre l’anima.
Nutrire l’anima non significa sempre ottimismo poetico, ma realtà e ricerca del nuovo che, per generazioni, rimane.
La poesia vera non può essere uccisa, perché perfino i versi cadaveri, posti davanti ai loro assassini, tornano a versare sangue dalle ferite…

Yuleisy Cruz Lezcano

INTERIORITA’

Incedere

Nonostante

Tuoni

E

Rischi

Ingigantire

Opalescenti

Riflessi

Importare

Testuggini

Assertive

…Perchè la mia fede (fiducia) in Qualcuno di grande e “buono” che è “al di sopra di tutti” mi spinge a cercare l’opportunità nascosta dietro le circostanze, anche se sgradevoli. E così i periodi di lock down, più o meno restrittivi, che abbiamo vissuto, li ho affrontati senza sgomento eccessivo, abituata come sono a camminare o pensare da sola. Ho smesso quasi subito di seguire i bollettini quotidiani, le conferenze stampa, le curve di allarmismo che sfilavano everyday sui canali televisivi. Ho scelto di non obbedire alle regole pedissequamente, uscendo a scattare foto, su sentieri o strade poco battute, e ho incrementato i dialoghi su messenger – scambi a tu per tu che hanno preparato incontri estivi (pare!) – e la mia presenza nelle dirette facebook, per non cessare l’attività autoriale iniziata oramai 10 anni or sono. 

Ho scelto la parola interiorità perché è qualcosa che mi appartiene sempre, nei momenti buoni e in quelli cattivi: perché ci appartiene quello che resta, al mutare delle circostanze, appunto. E noi apparteniamo alla nostra Natura, al mutare degli Accidenti (per dirla in filosofico linguaggio :-P). Più che scrivere poesie mie, mi sono dedicata a progettare incontri per il post-covid, per aiutare le persone a ritrovare l’agio di scambiarsi pensieri, cibi, memorie, aneliti. Ho cercato materiali ed esercizi più fruibili a distanza che in frequenza per le mie tre classi di spagnolo, e mi sono impegnata nel mantenere la pace interiore e nel nutrirmi interiormente, attraverso conferenze registrate o tavole rotonde via web.

Miriam Bruni

PAURA – La mia parola è paura, perché credo che la paura vera accomuni tutti e sia quella paura della quale poi la rabbia è figlia. Ma la paura si sa può essere una buona maestra verso il superamento dei timori e verso il coraggio di una presa di posizione consapevole. Quindi la parola paura può essere vinta. Perché proprio la parola paura? Perché innanzitutto ho visto pericolosa questa scelta di chiudere in casa le persone, indistintamente, senza motivo. Mi ha ricordato subito qualcosa che ha avuto a che fare col mio vissuto: l’essere prigioniera e non avere diritti. Leggendo poi quello che succedeva, soprattutto nei grossi centri, dove chi usciva veniva fermato dalle forze dell’ordine, multato e, a volte, aggredito malamente, la sentivo serpeggiare tra le persone. È poi cambiata la mia percezione, ma il timore è stato lasciato sempre in primo piano ad opera della comunicazione giornalistica e televisiva, sebbene io non abbia mai avuto paura del virus e quindi di infettarmi perché sapevo che esistevano ed esistono cure efficaci. La mia di paura riguardava le decisioni prese da chi ci governa, il rendermi conto di non avere (di non aver avuto già da diversi anni) più qualcuno che ci tutelasse! Sembrava e sembra un regime totalitario, dove la polizia è sotto gli ordini di uno stato oligarchico e “malato di potere”, dove non esiste più la discussione ad opera delle varie voci scientifiche ma vige un’unica voce alla quale è fatto a noi divieto dubitare, domandare e/o dissentire. Come ogni dogma che si rispetti qui si chiede fede e cieca obbedienza. Ed allora la mia paura si è tinta col rosso della rabbia per l’ingiustizia perpetrata, per l’ignominia di questa “terapia genica” chiamata vaccino quando ho capito che l’idea di base era quella di sdoganarlo come unico farmaco per controllare questo virus, ben sapendo invece che ci sono semplici terapie, utilizzate da medici liberi che decidono responsabilmente come curare al meglio i propri pazienti come dovrebbe essere sempre per chi ha scelto questa professione – missione! Occorre dire quel che è, e cioè che l’aver salvato migliaia di persone, l’aver salvato migliaia di vite, secondo testimonianze raccolte, non sono cose inventate. Mentre ho capito che invece chi sta in alto perseguiva ben altra strada: quella di sperimentare uno strano composto di nuova generazione ben dissimile dai vaccini finora conosciuti! Al momento non si sanno con esattezza il numero di reazioni avverse e di morti; si hanno notizie più verosimili da altre nazioni. La paura, quindi, è diventata “crociata” per la trasparenza e per la verità perché il gioco si stava facendo duro, soprattutto vedendo che la popolazione, una buona maggioranza di popolazione, non si accorgeva e non vede tuttora il pericolo che sta correndo. Ecco questa è la mia parola. Non mi sono venute in mente poesie, ma solo voglia di ribellarmi in tutti i modi possibili e immaginabili, di opporre resistenza assoluta, di cercare di coagulare le persone in un gruppo cospicuo e di aggregarmi a mia volta in gruppi già esistenti per opporre resistenza. Mi ha fatto venir voglia di essere più solidale, e di capire che non sono da sola a combattere questa battaglia ma siamo in tanti. Ho anche capito che devo cercare di tenere a bada il mio “ego” e che non devo istruire gli altri su quello che devono o non devono fare; che ciascuno è responsabile per se stesso e che non si può evitare a nessuno di percorrere la propria strada e di andare incontro al proprio destino. Il periodo storico che stiamo attraversando non può essere giudicato ora, ma è qualcosa che dobbiamo accettare senza farci troppe illusioni: cercando di operare al meglio, di fare ciò che la nostra anima ci porta a fare: cioè resistere alle false credenze ed indottrinamenti, seguendo il cuore verso il bene personale comune. Può essere che sia del tutto inutile cercare di aprire gli occhi alle persone e quindi mi modererò nelle mie affermazioni, e poi vedremo. La morte arriva comunque per ognuno a tempo debito. La paura credo sia la parola di tutti, perché la paura non esiste solo per un virus o una ipotetica malattia, può esserci per mille altri motivi. Quindi non scagliamoci troppo gli uni contro gli altri, perché, se io ho alcune paure, le altre persone ne possono avere altre. In ogni caso la paura (come è successo anche a me) può essere ridimensionata, può portare a forme di coraggio e di superamento. Può essere una parola che ci mette alla prova nel bene come nel male.

Emanuela Carniti

UN CANALE PER MAMMA ALMA

Cos’è Mamma Alma? Chi è Mamma Alma? Perché Mamma Alma? Perché Mamma Alma è ognuno di noi, perché Mamma Alma è l’anima della Terra e noi siamo la Terra. La Terra che abitiamo. La Terra che ci ospita e ci dona i frutti per vivere. La Terra che ci ha fatto conoscere la nostra dimensione umana. Mamma Alma è un nuovo canale creato da due donne che si sono incontrate con la stessa voce libera, che hanno unito molecole fatte dello stesso spirito di lotta gentile per la vita, e che hanno cercato un modo di comunicarla che abbraccia la voce dell’arte. Annamaria Leotta – artista poliedrica, cantante, compositrice e autrice di storie per bambini, impegnata nell’esercizio della musicoterapia e del massaggio shiatsu – e io – poeta da sempre, pittrice da qualche anno, dedita allo studio della cetra, autrice di testi di canzoni, impegnata nella diffusione della poesia e della cultura organizzando incontri e rassegne nelle osterie, negli spazi culturali e invitata a intervenire nelle scuole e in radio – abbiamo dato vita a questo progetto in forma canzone ma anche di recitazione – in musica lei, in parole io – dove la prima uscita è costituita da questo brano dal non casuale titolo di “Oltre la paralisi del caos”. Questa prima traccia e le altre che seguiranno, e alle quali stiamo lavorando, sono costruite musicalmente tenendo conto delle note che, secondo l’antica scala pentatonica cinese, corrispondono ai 5 Elementi. In “Oltre la paralisi del Caos” si è lavorato sull’elemento Metallo, che, preso in considerazione anche dalla medicina cinese, mette in relazione coi sentimenti positivi del coraggio e con quelli negativi della tristezza. Lo sprono è proprio quello al coraggio, e questo brano è sicuramente una prova di coraggio in questo periodo di paralisi, di stallo, di caos trattenuto dentro le mura di casa. Il canto è quello per un ritorno a pensare alla Terra come ad un’ “eterna partoriente”, ciclica visione della vita che stiamo scordando, tentando di tenere in piedi in un’assurda agonia di intenti, dimentichi del potere della morte finalizzata sempre alla rinascita.

Mamma Alma è un canale che vuole sfidare le convezioni e travalicare isolamento, facili esoterismi e visioni altre. È un modo per tornare agli elementi della natura, a ricantare il Pianeta Madre e gli esseri viventi tutti. Progetto partito dopo l’aver assistito impotenti agli incendi che hanno devastato l’anno scorso tutto il Pianeta Terra – dalla Siberia, all’Australia, al Brasile – si è andato poi ampliando passando per gli elementi dei quali è costituito il nostro mondo. Così il grido ci è salito alla penna e alla gola ed è diventato subito una sinergia di intenti, di obiettivi e di sentire comune, con lo scopo di tornare a sensibilizzare cuori stanchi e affaticati dalle morse sempre più strette delle leggi del mercato, da una salute umana e planetaria sempre più precaria, da un isolamento forzato dietro rapporti digitalizzati. Bucare le orecchie sorde di rumore di massa con il suono, il canto e la poesia. Farne mantra, se possibile, per un gesto corale di risveglio. L’arrivo del virus non ha potuto che rafforzare l’urgenza e l’emergenza al cambiamento.

Secondo il nostro sentire occorre abbracciarci in questo desiderio di riscoperta della vera vita vissuta innanzitutto all’interno dei nostri organismi cellulari, vitali, connessi all’Universo e al Cosmo e farne richiamo globale, ritornare ai ritmi essenziali che ci appartengono come esseri inseriti nel ciclo dell’esistenza.

Mamma Alma non è solo un semplice canale yuotube aperto da due donne fedeli a se stesse e al loro concetto di vita a dimensione umana, femminile, e materna nell’accoglienza e nella cura alla vita. Ma è un vero e proprio progetto. E come ogni progetto ha bisogno di energie. Positive. Buone. Nutrienti. Ecco, nutrire è la parola giusta! E come per ogni progetto c’è bisogno dell’apporto di tutti coloro che vogliano navigare nel senso della Vita. Abbiamo bisogno di voi. Di tutti voi. Vi aspettiamo. Numerosi e qui a interagire insieme in un abbraccio comune per progettare qualcosa di Nuovo.

(nella sezione discografia di questo sito troverete tutte le nuove uscite e le novità del progetto Mamma Alma. Stay tuned e interagite con noi – Annamaria Leotta e Serena Vestene)

IL RESTAURO E LA CREAZIONE

“Il falegname e la poetessa, il restauro e la creazione, quasi un ossimoro (…)”.

Ma lo è davvero? Da qui parte una mia riflessione sfociata da uno spunto del pittore veronese Pierluigi Meggiorini in merito al connubio tra legno e parola, tra pialla e penna, tra l’artigiano e il poeta; connubio che si è venuto a creare in occasione del restauro del portone di Piazzetta Scalette Rubiani al nr. 5 di fronte alla Società Letteraria di Verona nel corso del fine estate fino agli inizi dell’autunno scorso. Un progetto, quello proposto e curato dall’artigiano Aristide Vicentini, che ha richiesto un peculiare inserimento della materia poesia nella materia legno, invitandomi a comporre di mio pugno versi poetici propriamente dedicati al lavoro di restauro in corso e manoscriverli all’interno di un pannello provvisorio esposto a chiusura del portone, momentaneamente al posto delle ante che erano in fase di sistemazione. Tanto l’interesse pubblico destato quanto l’apprezzamento dei proprietari De Biasi, ecco che questa osservazione messa in risalto dal Meggiorini riflette il naturale desiderio di approfondire le ragioni possibili di un connubio tra restauro e creazione.

Così inizio ad articolare questo mio pensiero, in risposta ad un quesito indirettamente sollevato, partendo dal lato che più mi è idoneo, consono e naturale: ovviamente la poesia. E colgo l’occasione della pubblicazione dell’altisonanza di parole del genio Franco Loi, riprese in concomitanza alla sua recente scomparsa e riportate sulla pagina online di Interno Poesia, per sostenere ed argomentare, attraverso le sue considerazioni sulla poesia e i poeti, ciò che io stessa penso e vivo. Ossia quel suo valutare quanto i poeti non si educhino od escano da cattedre di poesia; quanto non ci sia didattica che possa sfornarne di formati e preparati, “anzi, la maggior parte dei poeti non ha frequentato le università e, soprattutto, le facoltà di Lettere. È interessante: pensiamo, ad esempio, a Montale, che era ragioniere, a Quasimodo, che era geometra. La poesia è qualcos’altro. È un movimento che attraversa l’uomo, scrivo movimento perché “emozione” nasce da moto. Il lavoro è una delle condizioni necessarie all’imparare a scrivere. È come il falegname con la sega, il contadino con la falce, che non sono andati a scuola, ma hanno acquisito quella naturalezza nell’uso dei loro strumenti attraverso la pratica continua, il lavoro – appunto. Bisogna lavorare, sbagliare, lavorare ancora, e più si lavora più si affina il mezzo, non solo la mano che fa, ma anche la nostra interiorità rispetto al mezzo.” – scrive Franco Loi.

E queste sue parole mi permettono di avvicinarmi proprio a quel termine lavorare che così manualmente ma anche emotivamente ha a che fare con il restauro e il rapporto con la materia viva. Ed ecco la liaison: recuperare e creare sono facce della stessa medaglia. Perché, si sa, nulla parte dal nulla: inutile ricordarlo, inutile negarlo. Sia nel recupero del lavoro fatto da altri – che si tratti di una cimasa, di una credenza o di un qualcosa di più imponente -, che nel proseguire un canale espressivo, che nasce già nell’oralità della notte dei tempi, per creare nuove soluzioni di scrittura e movimento poetico, l’abilità sta in entrambi i casi nel rispettare il preesistente e riportare a nuova vita qualcosa che ivi vi ha lungamente vissuto: l’anima.

Riconoscere l’anima alle cose significa trovare in esse da una parte la mano che le ha foggiate, dall’altra quello che già si riconosce nello stesso elemento foggiato, in questo caso il legno: la mano strutturale e armoniosa della natura che tutto ha già pensato e ha già armonizzato. La poesia non fa che raccogliere tutti questi moti dell’anima, presenti nell’uomo, nella materia, nel Cosmo e nelle cose, nonché nella mano stessa di chi scrive, e dare voce al silenzio, creare silenzio meditativo tra le parole, riportare alle orecchie del cuore e della mente le manifestazioni evolute del vivere e del viversi in questi passaggi. Attraverso la creazione di un nuovo dire per qualcosa che è già avvenuto fuori e dentro di noi, fuori e dentro le cose, fuori e dentro le situazioni, o per qualcosa che ancora avverrà ma che cala le radici nelle conoscenze ancestrali e nelle radici del mondo, si compie un atto poetico.

Recuperare e creare sono quindi entrambi processi che partono dallo stesso punto focale: quello dell’esaltazione e della messa in luce di quanto potrei azzardare definire inconscio collettivo in un termine tanto caro agli studi junghiani. Parlare in poesia di accadimenti emotivi e creazione di nuove modalità per portarli all’esterno, cercando di dare voce all’incomunicabilità apparente di certi moti, incontra lo stesso tentativo di riportare a nuova vita il tocco spento, ricoperto dalla patina inesorabile del tempo e rovinato dal passaggio degli accadimenti spazio-temporali di quanto lavorato nell’operato altrettanto emotivo (da “moto”) e nel sapere abile che sta alla base del “segreto del mestiere”. In entrambi i casi si cerca di portar fuori quello che è rinchiuso dentro, nascosto, perduto all’occhio e alle percezioni più immediate. E il restauro e la creazione diventano le uniche modalità possibili per far comunicare l’esistente con l’attuale, le radici con il presente, le origini con le visioni, anche attraverso dei cardini simbolo.

Quindi si può davvero parlare di un ossimoro? Dal mio punto di vista assolutamente no, se i risultati sono una calamita di attenzione e presa di visione modernissima che ha toccato occhi, cuore e macchine fotografiche di tanti passanti, e un portone riportato al suo vecchio splendore accanto a una poesia creata ad hoc come stella nuovissima e fissa al di là del tempo.

foto di Lorenzo Linthout Capirossi

UN GIOIELLO DI MUSEO

“Infinito” (al Piccolo Museo della Poesia di Piacenza)

Passa di lì, dall’occhio

rivestito di affreschi

il sacro del cielo.

Muse respirano

scapigliate nel Museo

tra balconate spianti

e colonne protese all’immenso.

E un Odisseo

si aggira ritornato in un’Itaca

di poesia, massimo

esempio di Luce

tempio battezzato

dalle piume

e dall’acume

di grandi penne.

Uccello alato, l’intuizione

venne senza barriere

e trova ristoro in un forziere

di pietra e di anime.

Merita rinnovata attenzione questo scrigno di bellezza, uno scrigno d’arte a tutto tondo, architettonico ma anche di intenti, che è il Piccolo Museo della Poesia di Piacenza. Lo spazio è quello della Chiesa di San Cristoforo, opera del Bibiena, in pieno centro storico, la profilazione degli interni a riprendere le chiare caratteristiche di un teatro, affrescato come una bomboniera da pitture e immagini evocative, tra le quali l’impronta della morte affidata al viso di un bambino posto accanto ad un piccolo scheletro grigio. Dopo l’inaugurazione del 5 settembre, organizzata dal Fondatore Massimo Silvotti, dalla codirettrice Sabrina Di Canio e dalla collaboratrice Giusy Càfari Pànico, con grande maestria e alla presenza di nomi importanti del panorama civile oltre che di quello poetico, recitativo e musicale, c’è ora la forte spinta a rendere questo tempio della bellezza e dallo spirito fortemente penetrante, una vera dimora per la cultura, non solo collezionata e presente in pezzi unici, libri, manoscritti e raccolte dei grandi della Poesia italiana, come Mario Luzi, Ungaretti, Leopardi, Alda Merini, ma anche quella viva di voci contemporanee con eventi e presentazioni di pubblicazioni.

Un Museo vivo insomma che applica il concetto stesso di fruibilità dell’opera nel suo primo attento scopo di far vivere i libri nelle mani dei visitatori. La corrente del Realismo Terminale ha sicuramente un’influenza del tutto speciale nell’ideazione di questo concetto di Museo, non solo perché ad esso è riservato tutto l’ampio spazio all’ingresso, con cubi espositivi a dare risalto alle opere manoscritte dei suoi membri, ma anche dovuto al concetto stesso di modernità di rapporto tra il soggetto e l’oggetto, in cui l’oggetto stesso può essere la scrittura stessa che prende vita delle mani del soggetto. Questo aspetto direi che è fondamentale per capire quale sia lo spirito con il quale il Museo accoglie il concetto stesso di se stesso. E apprendere che la distanza tra l’opera e l’occhio rapito del lettore può trasformarsi in un semplice gesto: quello di una mano tesa verso la conoscenza diretta, senza intermediari tra l’opera e il visitatore. Come senza intermediari saranno le iniziative presentate nel Museo, se non per le persone dialoganti con l’autore. Questo è quello che mi piace del Museo, questo è quello che ammiro nell’idea del suo Fondatore, questo ciò che mi ha portata a dare il mio contributo perché una lettera manoscritta di Alda Merini indirizzata alla primogenita Emanuela Carniti Merini con una poesia a lei dedicata e un manoscritto del cantautore e poeta Pino Mango potessero trovare casa tra queste magiche pareti, e a portarne una mia breve testimonianza e un racconto emozionato il giorno dell’inaugurazione. Una visita al Museo la consiglio a tutti coloro che intendono meravigliarsi: il resto poi verrà da sé.

TRIONFO DEL GENERE UMANO – CONSIDERAZIONI DEL DOPO WFP

Quale legame intreccia scienza e medicina alla poesia? Quale anello si stringe tra il genere umano e il potere curativo della natura? Quale connessione accomuna in questo tutti i popoli del Pianeta, bagna le anime del suo unguento, sacrifica la supremazia della ragione ad una più elevata armonizzata interazione con la parola del cuore, dello spirito, che ci rende umani e umanizza ogni nostro gesto concreto?

È giusto, in ogni manifestazione che abbia al centro la cura per l’essere umano, partire proprio da chi questo ponte lo sa creare, da chi quelle sovrastrutture che varcano i confini tra le culture e le genti le sa costruire, da chi risponde da un altro capo della penisola, da chi si muove da un’altra zona del continente e raggiunge il punto focale delle trasmissioni, da chi sa dare voce univoca ad altre voci assenti, da chi sa generare messaggi a pioggia, in un impegno costante di comunicazione e in uno scambio e in un confronto costruttivo. Solo così si può tornare alle radici dell’umanità e riprendere figure femminili emblematiche. La figura della sciamana guaritrice e l’eclettica Santa Ildegarda sfiorano la potenza medicale dei fiori e della natura, scoprendoci ancora tutte potenziali curatrici del corpo e dello spirito estrinsecato poi in un lirismo più aulico per descrivere un connubio tra menti e cuori. Figure femminili che trasmigrano i secoli e arrivano alla più attuale figura dell’infermiera, con termini descrittivi più moderni e più affini agli interventi netti del mondo della scienza, fino a spaccati del realismo più estremo, attualizzato e meccanizzato in una scelta anche precisa e quasi “bisturizzata” dei vocaboli. È da qui che, coadiuvata poi dall’esperienza diretta del mondo poetico-infermieristico, si apre un’accorata, a tratti commovente, poesia-testimonianza, riportando in versi il gesto operato in corsia e il dramma vissuto nelle trincee ospedaliere durante il periodo del Covid-19. Poesia che si fa poesia-reperto. O addirittura poesia-referto di uno stato dell’anima da salvare. Ma è unicamente femminile la sola polarità dei due lati del genere umano coinvolta in questo rapporto scienza-medicina-genere umano? Assolutamente no, se scrivendo di angeli degli ospedali si va a inserire una parola declinata al maschile nel campo dell’azione curativa, anzi addirittura una creatura dei cieli e assolutamente asessuata che riporta il medicamento del corpo ad una forma che abbraccia anche la sfera spirituale. Strada che porta poi altre anime poetiche a descrivere esperienze fuori corsia, nel mondo aperto e toccato dalla pandemia nello stesso identico straziante modo, ma senza i mezzi farmacologici e curativi, se non quelli della parola che estrinseca stati d’animo al limite dell’incenerirsi, dell’autocombustione insieme ai cadaveri vinti dal male; e che in un taglio espressivo più ironico può arrivare a pensare di salvarsi grazie a forme di farmaci amici delle nostre solitudini, dei nostri sensi di abbandono a situazioni al limite dell’ineluttabile. Ma si può anche ripartire dalla nostra nascita, dall’infanzia, per ripercorrere tracce del nostro cammino, del nostro trionfo del genere umano per giungere ad un certo punto alla consapevolezza che a curare può anche solo la parola, mischiata ad altre come pozioni medicamentose, come gesto sulla carta che può trasformarsi in rito salvifico, fino ad arrivare al mantra del suono e aprirsi poi al silenzio, come le rose. Ed è nel passaggio tra la parola, il suono e il silenzio, che arriva la musica a fare da sintesi; poesia che prende dapprima forma canzone e chiude il ciclo in un Choro unicamente strumentale, dove non resta che il suono e le pause, fino al silenzio.

La poesia cura i popoli di ogni dove perché sa amalgamarsi con tutte le espressioni umane e del creato e arriva fino al nocciolo nudo che non crea più distinzioni. Sempre e per sempre !

IL RITORNO

Questa quarantena

è stata tutta un’altalena

tutto un gioco di equilibri

sopra una pila di libri

Il ritorno non è un fatto individuale, come rincasare da un viaggio, da una trasferta, da una degenza. Il ritorno non ha solo due piedi ed un cuore. Implica un ritrovarsi. Non importa se con un luogo, una persona, una situazione pregressa: il ritorno ha il suono di due entità che si vengono incontro. Questo ritorno, almeno, che ci ha sorpresi ancora chiusi. E ci sono ancora storie che vale la pena ascoltare. La poesia è un mestiere clandestino, che ci porta così vicino alla vita, che scherza di continuo con la morte. E in questo periodo questo binomio non ha forse potuto toccare gli apici? Il silenzio e l’isolamento possono essere una forma di morte? La lontananza fisica dagli altri può portarci a sfiorare la vita più autentica, quella con il nostro io? Sguardi – sguardi – sguardi – e tutto si fa parola stretta in un pugno. Sopra una pila di libri ho posato le mie stanchezze. La loro compagnia mi ha rincuorato e stretto l’anima, mi ha reso meno sola, e più sola allo stesso tempo. Perché la consapevolezza della solitudine è una compagnia tenace, morde le carni del passato ma fortifica le visioni. E mai come ora abbiamo bisogno di visioni. E di storie che vale la pena ascoltare. Questo è il senso del ritorno. Ascoltare l’altro può essere un ritorno. Un respiro di un’umanità che in parte abbiamo imparato a scordare, a neutralizzare, a disinnescare. È così che il desiderio di contatto si rafforza. E così che è stato per me quando ciò non era possibile: cercare la pagina bianca, insieme alla pagina scritta, vuoto e pieno, due facce della quarantena.

Ci sono ancora storie che vale la pena ascoltare. Mettono in connessione un passato remoto, quasi rimpianto, le fasi importanti hanno uno spazio dedicato, quella nicchia che custodisce le tensioni verso il proprio luogo caro: le attitudini, gli affetti, le speranze, i nostri confini valicati, le nostre conquiste. È la nostra origine. Tutti, sento, tendono a un recupero della calma viva, ardente, pulsante della propria natura. Consapevolmente o inconsapevolmente. Contatti d’erba, ritmo della pioggia, strofinamento di profumi ci abitano. La natura ci invade, ci è madre, ci attende. L’abbiamo cercata nei primi passi fuori casa: invasione di boschi, ricerca del mare. Il ritorno è un divenire. E ci sono ancora storie che vale la pena ascoltare. I poeti prestano sguardi alle voci. I poeti prestano voce agli sguardi che parlano. Dobbiamo tornare alle storie. Quelle che ci hanno fatto crescere. Perché solo così possiamo tornare alla strada persa, prima della reclusione, prima del dramma, prima della pandemia. C’è stato un prima che ci siamo scordati.

Attendo storie da ascoltare, alla finestra dei miei bisbigli.

TEMPO ISOLATO

di Serena Vestene

Fermiamoci

Davvero non l’avremmo

mai pensato

che sarebbe stato

un messaggero veicolato

uomo a uomo

fiato a fiato

sputo a sputo

a rinsavirci sul risaputo

essere umani?

Ad inchiodarci nei luoghi violati,

a spugnarci le labbra d’aceto

durante il fioraceo profumo della primavera?

Ignara e schietta è la natura.

E l’aria quasi svuotata di piombo

si ripiomba d’astio.

Ustiona i polmoni di chi

non è colpito dal morbo.

Lo stesso morbo

del fuoco d’odio

a cui condanniamo la terra.

I contagi virali

hanno forme a corona,

per molti sono colpi letali

altri si ammalano l’ego

in condanne

da regime reale.

Fermiamoci.

Fermiamoci a pensare.

Questo tempo di isolamento forzato. Questo tempo dove ci viene imposto di muoverci solo per doveri (doveri legati al lavoro, alla professione; lo sfamarsi; il ricevere e prestare cure mediche). Questo tempo in cui ci viene richiesta unicamente responsabilità nei confronti di un solo aspetto della nostra salute, quella che può preservare anche quella degli altri dal virus. Questo tempo delle parole pesanti, dei media assillanti, degli altri addosso seppure a distanza, che in un batter di ciglia ce le affibbiano e che abbiamo fatto nostre, caricandocele senza esitazione sulle spalle. Per paura, per convinzione, per senso di rispetto – non importa quale aspetto abbia prevalso – Ma in una società liquida che da anni ormai ci sta guidando verso la ricerca del facile, dell’effimero, dello “smart” a tutti i costi, del veloce e sempre più veloce, della deresponsabilizzazione in nome di una libertà apparente, che in realtà  ha il volto della delegazione delle nostre scelte, ora qualcosa di invisibile, potente, feroce ci ha imposto uno stop. E le parole forti che non ci appartenevano più si sono ripresentate alla porta.

E come ogni agente esterno, che interferisca in un sistema consolidato e solo apparentemente dinamico, porta crisi. Crisi nel riadattamento di ogni aspetto, anche quello che sembrava più banale del nostro vivere. Ed è in questi casi che emerge ogni fragilità, non solo del sistema, ma anche di ogni singolo individuo. Difficoltà di adattamento, perdita della lucidità, comportamenti a rischio si contrappongono a un’insensata psicosi e caccia all’untore. Due estremi che spaccano in due anche la stessa vita quotidiana ferma e immobile, e riporta in superficie quel senso di identità di gregge.

Ma c’è qualcosa di più grande che può portarci fuori dal tunnel: fare di questo tempo di crisi tempo di opportunità.

Non importa se stiamo lavorando come e più di prima. O se siamo forzatamente inattivi per imposizione delle circostanze. Non conta se il giardino fuori casa ci dà un senso di privilegiata mantenuta normalità. O le quattro mura senza balcone ci soffocano la vista anche più semplice dell’orizzonte. Questo è per tutti indistintamente un tempo non regolare, non consueto, di abitudini distorte, di modalità impensate, di pratiche rivisitate. E per affrontarlo occorre fermarsi e riposizionare tutti gli elementi sul piatto. Oppure lasciare che lo facciano gli altri per noi: gli altri intesi come i vecchi schemi ai quali aderire ancora il più possibile; gli altri intesi come chi ci guarda e giudica; gli altri intesi come i vecchi noi, plasmati, soggiogati, addormentati in anni di incalzanti novità virtuali, nuovi rituali, nuove routine digitali che ci hanno portato al sistema nei quali siamo inseriti. E che le circostanze ci hanno dimostrato che al di là di ogni nostra convinzione – attiva o passiva – è globalmente e planetariamente tutt’altro che inattaccabile.

Eccoci qui ora: nudi. Sia che lo vogliamo vedere o non lo vogliamo riconoscere, siamo alla pelle scoperta, le ossa esposte, scartavetrati dalla nostra stessa arroganza dei tempi moderni, digitali, sotto controllo, tutto alla portata di un click per chi ci sa arrivare.

“Sii della corsa e non rimarrai indietro, per te si aprirà il futuro!”

Quella voce si è adombrata, tenta ancora di fare breccia:

 “Andrà tutto bene”

Ma la natura ci ha mostrato come tornare a guardare il cielo e come lei dal nostro stop stia ritrovando l’armonia. Recuperare certe parole sarà fondamentale: Buonsenso. Umanità. Ma soprattutto Armonia. Con il nostro sé e con ciò che intorno a noi è tornato a respirare, proprio quando ai colpiti dal virus è il respiro a mozzarsi – paradossale vero? Direi crudele, spietato …

“Si sta

come le tende

perennemente

alla finestra.”

Eppure, c’è armonia in questo sostare, in questo recuperare il valore del tempo, degli altri, del nostro corpo. C’è armonia nel lasciare che il pane lieviti e lievitino le nostre giornate come forse ci eravamo dimenticati, come forse non ci eravamo mai concessi succedesse, o non avevamo mai imparato a fare prima. Sostituiamo la parola paura, che ci renderebbe ancora più schiavi del sistema e inneggiatori della tirannia garantista, con la parola armonia. Tanto si sa che l’armonia avrà la meglio. L’ambiente ce l’ha dimostrato. La natura ce ne parla in silenzio. Gli equilibri si riprendono lo spazio. Sarà una scelta – di pochi, di molti – ma una scelta. Siamo chiamati a scegliere. A scegliere il nostro talento e metterlo a frutto. Oppure lasciarlo fagocitare via. Recuperare quella passione e farla germogliare. Oppure finire spezzati in un pensiero di massa. Tornare alle piccole cose, le cose basilari perché, inutile dirlo, ma senza le zolle della terra non c’è grattacielo che stia in piedi. Rallentare, armonizzare tutto con il ritmo del nostro cuore, non con i tempi di somministrazione di farmaci per i disturbi e gli aggravi di una non-vita, e che portano a un non-vita definitiva, e non solo per gli esseri umani …

Globalizzazione ha portato a “stare tutti sulla stessa barca” e gli individualismi a divenire pericolosi. Bizzarro per chi la pensava come la più alta forma di autonomia autodeterminante, vero?

Ma questo è il nostro momento più importante. Questo è determinante. Io lo sento. E voi?

La rinascita sarà bellissima !

Foto dalla mia via di casa

CONSIDERAZIONI DI POESIA

POESIA di Serena Vestene

Poesia. Poiesis – con il significato di “creazione”. Arte del saper far nascere dal nulla una struttura in versi per una comunicazione verbale anche di ciò che non lo è. E in una forma propria, poetica appunto. Spesso ci si chiede qual è il rapporto tra poesia e prosa. E personalmente osservo questi due mondi come mondi coesistenti, coabitanti, ma che come due binari ferroviari non si incontreranno mai. Si deve pensare che la poesia nasce come arte orale. Questa cosa viene spesso dimenticata. E come tale fa del suono, della sintesi, delle figure retoriche in uno studio dei versi, la base della sua espressione, proprio per poter stare sulla punta di 10 dita come un mantra. La prosa ha altri scopi. Scopi normalmente di comunicazione, di discussione argomentativa – non che la poesia non abbia anche contenuti sociali o affini – ma di certo con altri fini e si avvale di altre procedure di scrittura. Che le due sfere siano arrivate ad inquinarsi l’un l’altra generando quella che attualmente viene definita prosa poetica non sono certo io la prima a notarlo, seppur, nella quasi totalità dei casi, risulti a mio avviso un impoverimento di intenti a discapito soprattutto della forma poetica propriamente detta. Ma quello che vorrei venisse portato alla luce è l’aspetto dell’Es, di questo custode segreto, che trova legami con conoscenze, sensazioni e legami ancestrali. Se la prosa ha il compito essenziale dell’argomentazione e della chiarezza, la poesia è uno dei linguaggi d’arte dell’Es che trascende la lingua prosaica e si fa tramite di un luogo altro. Gli antichi si tramandavano canti del sogno che pescavano nell’inconscio. La poesia, pur avendo questa matrice comune, credo sia l’unica miccia a metterci in contatto con le nostre radici umane e spirituali. Il poeta quindi – parola che definisce a mio avviso l’indefinibile – diventa involontariamente portavoce di questa forza misteriosa che trascende – che lo si chiami Es, o daimon, nella definizione greca, o con qualsiasi altro nome -, ossia messaggero di questo custode segreto che gli opera attraverso, che cerca il tramite per comunicare da un luogo altro, che induce a portare alla luce visioni e intuizioni che si formano improvvise. Essere poeta è quindi essere un prescelto? È un destino? Portavoce di un qualcosa che ricorre ai simbolismi della parola scritta per evocare conoscenze che arrivano da un mondo che lo precede, qualcosa che può sfuggire e che deve essere fermato, il suo viene considerato un dono, un talento. La sensazione è quella di vivere momenti extra-corpo, dove la mente e i sensi ricevono impulsi inignorabili che pretendono immediato spazio. Ed è così che la poesia, pur partendo ovviamente da una base necessaria e autobiografica, ma proprio perché guidata alla sorgente da questo Es (che amo personalmente definire un custode segreto) ci spinge poi fuori dal nostro seminato. Ci “vince”. Ma cosa vuol dire vivere da poeta? In fondo il poeta rimane comunque un individuo inserito in un tessuto sociale, qualsiasi rapporto o non rapporto esso intenda avere con esso. Ma allo stesso tempo il poeta – o la poeta – rimane poeta in qualsiasi attività esso sia portato a svolgere nel vivere quotidiano. Perché è ciò che mantiene inalterato che lo contraddistingue: ossia il suo sguardo sul mondo. Il suo approccio resta quello da poeta, sia che stia guardando la TV a tavola, sia che stia operando in altro modo nella società. E questo perdersi per ritrovarsi inoppugnabilmente in una dimensione altra è già di per sé fonte di salvezza dal nostro quotidiano umano vivere, spiraglio e aria che pare non ci appartenga ma che riscopriamo essenziale. Per questo la poesia “vince” anche chi se ne nutre da lettore. Perché sia che sia una sorta di elevazione all’estasi o sia uno sprofondamento negli abissi, ciò che conta è il viaggio e portare quel proprio sguardo dentro e fuori di sé . La parola acquista carattere di unguento tra la lama e la cicatrice, suono evocativo che cura, qualcosa che potrebbe essere avvicinato a una dimensione di sogno. Che poi, se vogliamo, poesia e sogno non sono altro che due dimensioni oniriche per la loro modalità di espressione e che vanno a pescare entrambe nell’inconscio. Forse proprio per la sua funzione evocativa dovuta al suono della parola è la poesia che riporta al momento della prima pronunciazione del nome delle cose, e quindi all’anticipazione di qualcosa che già era, è stato ed è prima ancora che sia. Una poesia è come una piuma scesa dal cielo, e al poeta sta il compito di coglierla per volontà dell’Es – custode segreto. La “ratio” la identifica come piuma ma credo che occorra lasciare che nella sua caduta e nel prendere tutto il vento che le compete ognuno arrivi all’attribuzione emotiva, spirituale, evocativa della tipologia di uccello alla quale appartiene questa piuma, e in modo che poi il messaggio diventi univoco e universale. È così che la poesia acquista autonomia, quando, pur partendo dal proprio sé e dal proprio vissuto, si fa tramite di questioni elevate a rango universale. Diventa la poesia di tutti, espressione di un Es – custode segreto – che con i momenti di intuizione ci attraversa. Solo così una poesia non viene più riconosciuta a distanza di tempo dal suo autore perché non tocca esclusivamente e propriamente un sentire privato cronologicamente fissato sulla carta ma qualcosa che si rinnova e può restare una verità intesa come vero sentire. La lingua-pensiero con la quale ci esprimiamo quotidianamente si confà all’attualizzazione di contesti e scenografie politiche e sociali. La parola poetica pesca dall’origine e pur utilizzando la lingua corrente si rifà alla meticolosità della fonte prima creatrice di suono, evocazione, mantra e ritorna al significato primo del dire, che si stacca dalla comunicazione tradizionale per diventare messaggero di un qualcosa che abbiamo perduto, forse dimenticato, forse confuso nel passare delle vite. La parola poetica non subisce il naufragio di una lingua perché arriva sempre al centro dell’essenza, muta nell’immutabilità perché resti sempre viva. Anche quando più poesie seguono logiche di scelta tematica, per ogni singolo componimento si riconosce una diversa miccia scatenante e sempre improvvisa, inspiegabile e portatrice di un messaggio che va oltre la piuma scesa dal cielo, per rifarmi alla simbologia usata in precedenza. Solo la forma ha bisogno di cura e di scelta, ma non sempre di tempo e di rivisitazione. Le regole della poesia sono solo nella sua struttura, non della sua venuta al mondo. Non ci sono condizioni consce che la favoriscono, e se anche ci sono, è quello che ci piace pensare ma di certezza non ve n’è nessuna. Come ogni altra forma d’arte rispetta leggi che non conosciamo se non le essenziali della tecnica, la cui attitudine non sempre si spiega del tutto razionalmente. Credo che affermare che tutto stia a quando questa forza opera non sia propriamente un azzardo, considerato che l’Es – custode segreto – comunica attraverso l’intuizione e quindi non è mai dato sapere quando questa si possa manifestare. Per questo c’è chi porta sempre il suo taccuino in ogni dove. E se mi capita che il contesto nel quale sono inserita non agevoli la scrittura, ripeto mentalmente dentro di me come un mantra “quelle piume” che mi sono cadute dal cielo per poterle fissare il prima possibile sulla carta.