TRIONFO DEL GENERE UMANO – CONSIDERAZIONI DEL DOPO WFP

Quale legame intreccia scienza e medicina alla poesia? Quale anello si stringe tra il genere umano e il potere curativo della natura? Quale connessione accomuna in questo tutti i popoli del Pianeta, bagna le anime del suo unguento, sacrifica la supremazia della ragione ad una più elevata armonizzata interazione con la parola del cuore, dello spirito, che ci rende umani e umanizza ogni nostro gesto concreto?

È giusto, in ogni manifestazione che abbia al centro la cura per l’essere umano, partire proprio da chi questo ponte lo sa creare, da chi quelle sovrastrutture che varcano i confini tra le culture e le genti le sa costruire, da chi risponde da un altro capo della penisola, da chi si muove da un’altra zona del continente e raggiunge il punto focale delle trasmissioni, da chi sa dare voce univoca ad altre voci assenti, da chi sa generare messaggi a pioggia, in un impegno costante di comunicazione e in uno scambio e in un confronto costruttivo. Solo così si può tornare alle radici dell’umanità e riprendere figure femminili emblematiche. La figura della sciamana guaritrice e l’eclettica Santa Ildegarda sfiorano la potenza medicale dei fiori e della natura, scoprendoci ancora tutte potenziali curatrici del corpo e dello spirito estrinsecato poi in un lirismo più aulico per descrivere un connubio tra menti e cuori. Figure femminili che trasmigrano i secoli e arrivano alla più attuale figura dell’infermiera, con termini descrittivi più moderni e più affini agli interventi netti del mondo della scienza, fino a spaccati del realismo più estremo, attualizzato e meccanizzato in una scelta anche precisa e quasi “bisturizzata” dei vocaboli. È da qui che, coadiuvata poi dall’esperienza diretta del mondo poetico-infermieristico, si apre un’accorata, a tratti commovente, poesia-testimonianza, riportando in versi il gesto operato in corsia e il dramma vissuto nelle trincee ospedaliere durante il periodo del Covid-19. Poesia che si fa poesia-reperto. O addirittura poesia-referto di uno stato dell’anima da salvare. Ma è unicamente femminile la sola polarità dei due lati del genere umano coinvolta in questo rapporto scienza-medicina-genere umano? Assolutamente no, se scrivendo di angeli degli ospedali si va a inserire una parola declinata al maschile nel campo dell’azione curativa, anzi addirittura una creatura dei cieli e assolutamente asessuata che riporta il medicamento del corpo ad una forma che abbraccia anche la sfera spirituale. Strada che porta poi altre anime poetiche a descrivere esperienze fuori corsia, nel mondo aperto e toccato dalla pandemia nello stesso identico straziante modo, ma senza i mezzi farmacologici e curativi, se non quelli della parola che estrinseca stati d’animo al limite dell’incenerirsi, dell’autocombustione insieme ai cadaveri vinti dal male; e che in un taglio espressivo più ironico può arrivare a pensare di salvarsi grazie a forme di farmaci amici delle nostre solitudini, dei nostri sensi di abbandono a situazioni al limite dell’ineluttabile. Ma si può anche ripartire dalla nostra nascita, dall’infanzia, per ripercorrere tracce del nostro cammino, del nostro trionfo del genere umano per giungere ad un certo punto alla consapevolezza che a curare può anche solo la parola, mischiata ad altre come pozioni medicamentose, come gesto sulla carta che può trasformarsi in rito salvifico, fino ad arrivare al mantra del suono e aprirsi poi al silenzio, come le rose. Ed è nel passaggio tra la parola, il suono e il silenzio, che arriva la musica a fare da sintesi; poesia che prende dapprima forma canzone e chiude il ciclo in un Choro unicamente strumentale, dove non resta che il suono e le pause, fino al silenzio.

La poesia cura i popoli di ogni dove perché sa amalgamarsi con tutte le espressioni umane e del creato e arriva fino al nocciolo nudo che non crea più distinzioni. Sempre e per sempre !

IL RITORNO

Questa quarantena

è stata tutta un’altalena

tutto un gioco di equilibri

sopra una pila di libri

Il ritorno non è un fatto individuale, come rincasare da un viaggio, da una trasferta, da una degenza. Il ritorno non ha solo due piedi ed un cuore. Implica un ritrovarsi. Non importa se con un luogo, una persona, una situazione pregressa: il ritorno ha il suono di due entità che si vengono incontro. Questo ritorno, almeno, che ci ha sorpresi ancora chiusi. E ci sono ancora storie che vale la pena ascoltare. La poesia è un mestiere clandestino, che ci porta così vicino alla vita, che scherza di continuo con la morte. E in questo periodo questo binomio non ha forse potuto toccare gli apici? Il silenzio e l’isolamento possono essere una forma di morte? La lontananza fisica dagli altri può portarci a sfiorare la vita più autentica, quella con il nostro io? Sguardi – sguardi – sguardi – e tutto si fa parola stretta in un pugno. Sopra una pila di libri ho posato le mie stanchezze. La loro compagnia mi ha rincuorato e stretto l’anima, mi ha reso meno sola, e più sola allo stesso tempo. Perché la consapevolezza della solitudine è una compagnia tenace, morde le carni del passato ma fortifica le visioni. E mai come ora abbiamo bisogno di visioni. E di storie che vale la pena ascoltare. Questo è il senso del ritorno. Ascoltare l’altro può essere un ritorno. Un respiro di un’umanità che in parte abbiamo imparato a scordare, a neutralizzare, a disinnescare. È così che il desiderio di contatto si rafforza. E così che è stato per me quando ciò non era possibile: cercare la pagina bianca, insieme alla pagina scritta, vuoto e pieno, due facce della quarantena.

Ci sono ancora storie che vale la pena ascoltare. Mettono in connessione un passato remoto, quasi rimpianto, le fasi importanti hanno uno spazio dedicato, quella nicchia che custodisce le tensioni verso il proprio luogo caro: le attitudini, gli affetti, le speranze, i nostri confini valicati, le nostre conquiste. È la nostra origine. Tutti, sento, tendono a un recupero della calma viva, ardente, pulsante della propria natura. Consapevolmente o inconsapevolmente. Contatti d’erba, ritmo della pioggia, strofinamento di profumi ci abitano. La natura ci invade, ci è madre, ci attende. L’abbiamo cercata nei primi passi fuori casa: invasione di boschi, ricerca del mare. Il ritorno è un divenire. E ci sono ancora storie che vale la pena ascoltare. I poeti prestano sguardi alle voci. I poeti prestano voce agli sguardi che parlano. Dobbiamo tornare alle storie. Quelle che ci hanno fatto crescere. Perché solo così possiamo tornare alla strada persa, prima della reclusione, prima del dramma, prima della pandemia. C’è stato un prima che ci siamo scordati.

Attendo storie da ascoltare, alla finestra dei miei bisbigli.